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Adonis - Parigi, 13 novembre 2015

 

Tutti siamo rimasti colpiti dai criminali attentati avvenuti a Parigi il 13 novembre scorso.
Gran parte di noi continua, da allora, a seguire le notizie, gli sviluppi e gli approfondimenti che i mezzi di comunicazione (ed internet tra tutti) ci forniscono regolarmente.
Àcàrya ha, quale ragione stessa del suo esistere, l’amore per la poesia ed i poeti che la incarnano. Non potevamo quindi dimenticare che proprio a Parigi vive, in esilio da quasi 30 anni, Adonis, uno dei più grandi poeti arabi contemporanei.
Adonis è siriano. Ed il suo essere così, ad un tempo, siriano e parigino, si carica in questo momento di tutta la tensione tra ciò che i rapporti tra persone, origini, culture dovrebbero essere, e ciò che – per alcuni – tragicamente sono.
Per qualche giorno non siamo riusciti a trovare, in rete, un suo commento. Poi, il 16 novembre, il quotidiano spagnolo El País ha pubblicato un’intervista fattagli la domenica precedente. Abbiamo pensato di offrirne – qui di seguito – una sintetica traduzione per quanti non abbiano familiarità con la lingua spagnola.

 

Dobbiamo però anche ricordare che il personaggio pubblico di Adonis, proprio in seguito alla guerra civile siriana, è divenuto alquanto controverso (accusato di non aver mai alzato realmente la voce contro il regime di al-Asad – pur accusandolo di tirannia – e apertamente sfiduciato nei confronti degli oppositori, per ragioni che, parzialmente, espone anche in questo articolo). In effetti, la complessa posizione di Adonis sulla crisi siriana, e sul mondo arabo più in generale, non è sempre facile da cogliere alla luce di un singolo intervento. Abbiamo quindi ritenuto di aggiungere un recente articolo apparso sulle pagine in lingua inglese della Deutsche Welle, che può dare un'idea del genere di controversie sorte attorno alla figura di Adonis a seguito del conflitto siriano. Anche di questo forniamo - qui in fondo - un nostro stralcio di traduzione.

 

* Questi articoli, tradotti, sono presenti come post commentabili sulla nostra pagina facebook.
* Articoli di Wikipedia su Adonis, in italiano e in inglese.

 

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Adonis: “Il problema arabo è nel non avere separato la religione dalla politica”
Il poeta siriano, esiliato a Parigi, sostiene che “dobbiamo combattere l’ISIS anche con la cultura”
Guillermo Altares, El País [
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Parigi, 16 novembre 2015 – 22:00 CET


Il presidente siriano Shukri al-Quwwatli visitò il villaggio di Al-Qassabin nel 1943, e un bambino di nome Alī Ahmad Sa’īd Isbir, con un particolare talento per la letteratura, lesse una poesia. Il presidente, incantato, gli chiese se potesse fare qualcosa per lui, e il bambino rispose: “mandarmi a scuola”. Quel bambino, sotto lo pseudonimo di Adonis, è diventato uno tra i grandi poeti arabi della storia. Si esiliò nel 1956 in Libano, paese che abbandonò nel 1986 per Parigi, sfuggendo alla guerra civile. A 85 anni non è solo un poeta immenso, ma anche una delle voci più critiche e lucide riguardo al mondo arabo, come traspare anche dal suo ultimo libro, un saggio intitolato Violenza e Islam, che verrà pubblicato in Spagna a marzo, da Ariel [in Italia a dicembre, presso Guanda – NdT].

Venerdì scorso la guerra di Siria è arrivata fino nel cuore della sua città di adozione, con i peggiori attentati terroristici che abbiano mai colpito la Francia. L’intervista ha avuto luogo la domenica sera, nel caffè Flore, uno dei luoghi mitici dell’intellettualità europea. Era pieno di turisti e di parigini, come sempre. In uno dei suoi poemi in prosa ha scritto: “Se sono nativo d’Oriente, è perché ho creato il mio proprio Oriente. Gli appartengo nella misura in cui anch’esso appartiene a me. Questo Oriente è a volte memoria e oblio, presenza e assenza”. Con questa voce indipendente, questo eterno candidato al premio Nobel per la Letteratura – anche se ha ricevuto riconoscimenti tanto importanti come il Goethe – non esita a offrire la propria visione del Vicino Oriente: “Non ci può essere una rivoluzione araba senza una separazione totale e radicale tra la religione e la cultura, la società e la politica”.
 

- Domanda: Come si è sentito quando la guerra di Siria è arrivata fino al cuore di Parigi?

- Risposta: Non mi ha sorpreso. La vocazione del Dāʿiš [lo “Stato Islamico”, nella sua sigla araba] e del terrorismo è quella di essere internazionali, per dimostrare che sono qui, che sono forti.

- D: Perché, secondo lei, le argomentazioni dello stato islamico penetrano così profondamente tra certi giovani?

- R: Stanno indubbiamente influenzando la mentalità. C’è una memoria storica nei confronti dell’Occidente e al tempo stesso c’è una condizione psicologica, la frustrazione degli arabi su tutti i piani. Per questo il Dāʿiš può influenzare tanta gente. Il Dāʿiš è riuscito a trovare un proprio spazio nella mentalità di alcuni arabi che vivono in un’atmosfera di nichilismo. È necessario ricercare le radici di questa influenza, combattere il Dāʿiš anche con la cultura. Non lo si può fare solo con l’esercito.

- D: Crede che la cultura sia ora più importante delle azioni militari?

- R: La cultura è sempre più importante. L’esercito non può combattere, può eliminare, ma non conclude molto. Non si può vincere la violenza con altra violenza, bisogna cercare un’altra via.

- D: Il suo ultimo libro pubblicato in Spagna, Zócalo, tratta delle culture precolombiane in Messico, descrive la violenza e lo sterminio di un popolo. Nello scriverlo si è sentito influenzato dagli avvenimenti in Siria?

- R: No, è un libro sulla conquista del Messico, durante la quale una civiltà è stata sterminata. Però è certo che tutti i monoteismi sono fondati sulla violenza, su un fratello che ne uccide un altro, Caino uccise Abele. La violenza è lì. È uno dei fondamenti.

- D: C’è una soluzione per il conflitto siriano?

- R: C’è sempre la speranza di una soluzione, un popolo potrà sempre trovare una soluzione. Non possiamo disperare. La speranza fa parte della personalità di tutti i popoli.

- D: Però le ferite della guerra civile in Siria sembrano molto profonde, perché si tratta di un conflitto veramente selvaggio.

- R: Le ferite di una guerra civile sono sempre profonde e la Spagna lo sa molto bene. Una guerra civile è una ferita in sé, però continuo ad essere ottimista riguardo ai popoli, ma pessimista riguardo ai regimi. Questi non possono fare nulla. Non c’è nessuna differenza tra i regimi arabi, sono tutti tirannici. Ci sono solo piccole differenze, differenze di grado, non di natura. Nessun regime arabo è democratico, nella nostra storia non conosciamo la democrazia. Non ci sono diritti umani, le donne sono imprigionate dentro la legge coranica, la Sharīʿa. Anche se è vero che a Tunisi si son fatti dei progressi, le donne non esistono e non hanno il destino nelle proprie mani. Tutti i regimi arabi sono la stessa cosa: tirannia. E, tuttavia, ciò che più sorprende è che tutti i loro oppositori sono fatti della medesima sostanza. Rappresentano l’altra faccia della stessa medaglia. Perché la maggioranza degli oppositori non ha alcuna intenzione di rompere con la religione, con le tradizioni, il confessionalismo. Sono concentrati solo sul potere, sul far cadere un regime incarnato da una sola persona. Cambiare una persona e rimpiazzarla con un’altra non cambia nulla. Dal 1950 tanti regimi sono cambiati, ma fondamentalmente continua tutto allo stesso modo. La politica, per me, fa parte della cultura. Non si può avere una rivoluzione araba senza una separazione totale e radicale tra la religione e la cultura, la società e la politica.

- D: Crede che la chiave sia lì?

- R: Senza dubbio, senza di questo non possiamo parlare di rivoluzione. Quel che ha luogo nel mondo arabo è un conflitto per il potere, perché nella mente dei musulmani non c’è nessun problema nella società, il problema è nel potere. Lei ha mai letto qualche richiesta di separare la religione dallo stato, di liberare le donne? Mai. È un conflitto per il potere. Ma l’essenziale non è cambiare il potere, ma la società.

- D: Ritiene che la primavera araba sia stata un’occasione perduta?

- R: Disgraziatamente sì. Ho scritto molto su questo argomento. È finita, e si è convertita in un conflitto internazionale. La violenza ha ampiamente superato la Siria.

- D: Come siriano, ed anche come parigino, cosa ha provato venerdì notte?

- R: È stato orribile. Non erano siriani, erano mercenari. Con il Dāʿiš combatte gente di 80 paesi, hanno decapitato persone, hanno messo donne in gabbia e le hanno vendute come fossero merce. È spaventoso. Hanno distrutto opere immense dell’architettura e dell’arte, hanno distrutto e saccheggiato i musei. Non è una rivoluzione, una rivoluzione deve conservare la storia, l’arte… Quale rivoluzione distruggerebbe il souk di Aleppo, un’opera meravigliosa? Potrebbe un’autentica rivoluzione siriana distruggere Aleppo o Palmira?

- D: Lei è fuggito dal suo paese nel 1956, e poi ha dovuto fuggire nuovamente da Beirut negli anni ottanta, a causa della guerra civile. Cosa prova quando vede migliaia di persone sulle strade d’Europa, in cerca di rifugio?

- R: È una tragedia per me vedere questa gente, maltrattata dagli europei restii ad accoglierli. Debbo ringraziare la Germania perché è stata il paese più generoso, nonostante non sia uno dei paesi che hanno colonizzato gli arabi. I paesi che hanno colonizzato gli arabi, il Regno Unito, la Francia, il Belgio [sic] e l’Italia, sono stati molto meno generosi della Germania. Questo solleva una questione: dovrebbero sentire di avere un debito morale verso gli arabi?

- D: Crede, come nel famoso aneddoto di cui è stato protagonista, che i bambini arabi abbiano soprattutto necessità di andare a scuola, che la cultura possa risolvere molti di questi problemi?

- R: Quello fu negli anni quaranta, era un’altra cosa. Senza dubbio la cultura è una tra le cose che mancano a noi arabi, ma anche il lavoro. La disoccupazione è un problema immenso. I problemi essenziali, il tribalismo, il confessionalismo, i legami familiari, l’etnia, rimangono. Non abbiamo risolto nulla perché non abbiamo separato la religione dallo stato, siamo ancora nel Medio Evo. Solo la facciata è cambiata, abbiamo automobili, aeroplani, ma la cultura è tribale, antiquata e religiosa.

- D: E questo è toccato anche ai giovani arabi nei quartieri delle periferie francesi?

- R: È lo stesso. La Repubblica francese sente di non avere nulla a che fare con loro, e loro con la Repubblica, esiste un muro immenso che li separa. Come abbattere questo muro? Non ho una risposta, non sono un politico.

  

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Il premio tedesco per la pace al poeta siriano Adonis scatena indignazione
Il poeta siriano Adonis non ha criticato apertamente il regime di al-Asad. Ora la decisione di assegnargli il premio per la pace intitolato allo scrittore pacifista Erich Maria Remarque è al centro della controversia.
Kersten Knipp, Deutsche Welle, 03.09.2015 [>]

Dal punto di vista letterario Alī Ahmad Sa’īd, che scrive sotto lo pseudonimo di Adonis, non ha mai vacillato. Per decenni ha plasmato la scena poetica d’avanguardia non solo in Siria, ma nell’intero mondo arabo.
A modo suo ha dato voce al profondo fermento politico e culturale che ha scosso la regione negli ultimi 200 anni, dall’epoca del colonialismo Europeo. “Giunge un tempo tra cenere e rose / Quando tutto dovrà estinguersi / Quando tutto dovrà cominciare”, scrisse nel 1972, sovrapponendo speranza e sconvolgimento.
Con le sue poesia, Adonis incarna il moderno intellettuale arabo tanto amato dall’Occidente. Dal punto di vista europeo rappresenta la speranza inespressa che la regione possa un giorno abbandonare le sue regole religiose ed aprirsi a ciò che l’Occidente definisce come il proprio valore centrale: la ragione.

Adonis rappresenta l’ideale occidentale dell’intellettuale

Per molto tempo si è dato per scontato che Adonis incarnasse la modernità non solo dal punto di vista letterario, ma anche politico. Per questa ragione ha ricevuto già molti premi in Europa. Nel 2001 gli è stata assegnata in Germania la Medaglia Goethe per la comprensione interculturale, e nel 2013 il Premio Petrarca per la poesia contemporanea.
Nel 2011 la città di Francoforte l’ha omaggiato del Premio Goethe. Ma anche allora il riconoscimento ha creato qualche turbamento. I critici contestarono l’onore assegnato a un poeta il cui tempo sembrava essere passato – almeno politicamente parlando – e che non stava più tenendo il passo con gli eventi della sua patria, la Siria.
Misero in dubbio il fatto che Adonis comprendesse veramente la protesta dei siriani, suoi compatrioti, contro il regime di Baššār al-Asad.
Adonis aveva dichiarato, in una intervista, che al-Asad era in grado di riformare la Siria – anche se aveva già provocato la morte di migliaia di persone. Il meno che al-Asad potesse fare, aggiunse il poeta, era dimettersi. Le sue dichiarazioni provocarono confusione. Adonis aveva perso il contatto [con la realtà siriana]?

Adonis non ha mostrato simpatia per la rivoluzione siriana

Negli anni seguenti, il poeta non è riuscito a fugare questi sospetti. Al contrario: le sue pubbliche dichiarazioni lo hanno irrevocabilmente screditato tra i suoi compatrioti. Non poteva sostenere una rivoluzione iniziata nelle moschee, dichiarò poco dopo l’inizio della rivoluzione siriana, riferendosi al fatto che i dissidenti si incontravano nei luoghi di preghiera, per la mancanza di altri spazî adatti allo scopo.
Recentemente, Adonis ha dichiarato al quotidiano libanese “As-Safir” di non capire perché i siriani vengano ancora etichettati come “popolo della rivoluzione”, dato che un terzo della popolazione ha già lasciato il paese.
Ora Adonis è stato prescelto per ricevere il Premio Erich Maria Remarque dalla città tedesca di Osnabrück – città natale dello scrittore pacifista cui il premio è intitolato. Non sorprende che la decisione abbia suscitato polemiche, e non solo tra gli intellettuali arabi.
Ahmad Hissou, redattore di Deutsche Welle e nativo della Siria, ha definito l’annuncio del premio un “giorno nero”. Dopo quasi cinque anni di guerra, Adonis non ha ancora mostrato solidarietà verso i suoi compatrioti, commenta Hissou. Il redattore di DW ha aggiunto di essere stupito del fatto che il poeta, che vive a Parigi da così tanti anni, irrida nella sua intervista ad As-Safir i siriani che fuggono dalle bombe di al-Asad e dalle armi dello “Stato Islamico”. “Mentre la Germania accoglie centinaia di migliaia di rifugiati siriani, Osnabrück onora un poeta che quasi mai ha criticato Assad”, conclude Hissou.

Perché Adonis è stato scelto per il premio per la pace

Il vincitore di quest’anno del Premio per la Pace degli Editori Tedeschi, Navid Kermani, ha espresso la propria contrarietà con le parole e con i fatti: rifiutando l’invito a tenere il discorso di elogio in onore di Adonis a Osnabrück, il 20 novembre.
Kermani ha dichiarato al quotidiano tedesco “Kölner Stadtanzeiger” di rispettare l’opera di Adonis, ma di criticare il fatto che il poeta non abbia preso le distanze dai metodi brutali che il regime di Damasco ha usato contro il suo stesso popolo.
La città sostiene che la giuria sapeva bene che il premio avrebbe suscitato polemiche. In un comunicato ha affermato: “Il premio ad Adonis aveva lo scopo di accendere la discussione sui problemi in Siria e sulle possibili soluzioni, così come sulle responsabilità a carico di altri stati e sull’influenza che questi possono avere”.
I membri della giuria ed il sindaco di Osnabrück, Wolfgang Griesert, hanno sottolineato come le posizioni di Adonis su altri temi sociali – in particolare il suo “sostegno per la separazione tra la religione e lo stato e per la parità di diritti per le donne nel mondo arabo” – sono stati fondamentali per la decisione della giuria.
Il poeta, ha detto Griesert, spiegando come il suo lavoro corrisponda pienamente agli ideali di pace del Premio Remarque, affronta questioni fondamentali che vanno al di là del conflitto in corso.
Secondo l’UNHCR, più di 11 milioni di siriani sono, attualmente, sfollati. Circa 250.000 sono caduti vittime della guerra, secondo l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani ufficialmente riconosciuto. Molte delle vittime non sono state uccise dall’“IS” [altra sigla sotto la quale è noto lo “Stato Islamico”], ma dal regime di al-Asad. “Adonis avrebbe dovuto parlare di questo” dice Hissou, “Questo sarebbe stato degno di un premio per la pace”.


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